Le paludi pontine viste dal Gregorovius

Copertina volume Passeggiate per l'Italia di Gregorovius

Copertina volume Passeggiate per l'Italia di Gregorovius

Continua l’esperienza documentale di pontiniaweb per raccontare la storia del territorio dove sorge Pontinia direttamente dalle numerose fonti, testimonianze e documenti, alcune inedite, che il portale pontiniaweb.it pubblica in anteprima. Una modalità nuova per conoscere meglio la storia del nostro territorio direttamente dagli studiosi, scrittori ed artisti che solcarono questo territorio prima degli interventi di bonificazione integrale del 1900. Pontiniaweb propone un estratto dell’opera “Passeggiate per l’Italia” di Ferdinand Gregorovius che ci restituisce una fotografia di sensazioni ed immagini risalente al 1856 dello stato delle paludi pontine. Il testo completo può essere consultato a qui mentre pontiniaweb.it propone alcuni brani tratti dall’opera relativi proprio allo stato delle paludi pontine vissuto dal Gregorovious. “Leggendo queste pagine si sente che Gregorovius è nel suo dominio: egli conosceva infatti Roma ed i suoi
dintorni, come pochi anche oggi la conoscono e l’amava con affetto sconfinato e ammirazione profonda di
figlio: ne conosceva i monumenti, i ruderi, gli abitanti, le abitudini, il linguaggio, la vita comune, la storia
grande e tragica, la politica, le leggende, la fede. Le sue osservazioni, di un’esattezza severa, scrupolosa, sono
quindi spontanee e pensate insieme, costanti e continue. La vita di mezzo secolo fa, sotto il dominio papale,
molto diversa invero da quella di oggi, ma forse più caratteristica, rivive nelle pagine di questo bel libro e vi
rivive intera, in tutta la sua bellezza, ricordando, più di quello che oggi ricordi, tutto un passato di lotte, di
guerre, di gesta e di tragedie. Accanto al Lazio della metà del secolo XIX si leva, in questo libro mirabile, per
quanto non scevro di difetti e d’ingenuità, il Lazio del medio evo. Libro di rievocazione storica potrebbe
dunque chiamarsi questo: sia che l’Autore ci presenti il pittoresco aspetto della campagna romana, le selvagge
solitudini dei monti Ernici e Volsci, la poesia profonda delle rovine infiorate di Ninfa, o il pauroso squallore
di Astura dinanzi al limpido Tirreno e le ville sepolte nelle paludi pontine, l’omerico Circeo, o il cupo maniero
degli Orsini, il passato ritorna sempre in queste pagine e vi ritorna nella sua vera luce, maestoso, terribile, in
tutto il suo profumo di cosa lontana.” ULISSE CARBONI–LIBRAIO EDITORE ROMA Via delle Muratte, 77 1906

Di seguito un estratto del primo volume dell’opera che può essere integralmente consultato qui:

“… Finalmente giungemmo al termine della foresta, sul versante sud-ovest del monte, ed io provai l’impressione
di un uomo condotto con gli occhi bendati dinanzi ad uno spettacolo meraviglioso, cui sia stata d’un tratto
tolta la benda. Dinanzi a me apparve luminosa ai nostri piedi la pianura marittima, le paludi pontine, pervase
di varie e strane tinte, più lontano il mare, dorato dal sole, le isole di Ponza, perdute in mezzo alle onde
brillanti; il capo Circeo, la torre solitaria d’Astura, la Linea Pia e il castello di Sermoneta. Uscendo dalle
ombre della foresta, l’aspetto di questo panorama è uno dei più belli che l’Italia presenti. Su di me ha prodotto
un’impressione così forte che non ho trovato sul momento, e neppure ora so trovare, parole atte ad esprimerla.
Mi si era vantata assai a Roma la bellezza di questo colpo d’occhio e mi si era detto che non avrei potuto
trovare nulla di più bello della traversata dei monti Volsci e della vista di lassù delle paludi pontine e del
mare; nulla di più vero. Io consiglio vivamente a tutti quelli che visitano i paesi romani, questa magnifica
escursione…. Chi non ha mai attraversato le paludi Pontine per recarsi per la via Appia a Terracina e crede che siano delle putride e nauseabonde maremme, s’inganna. Vi sono, è vero, terreni paludosi e stagni in quantità, ma nascosti
da boschi, nei quali errano cinghiali, istrici, cervi, bufali e buoi quasi selvaggi. Nei mesi di maggio e di giugno
la regione pare quasi un mare di fiori. Nell’estate, invece, sembra il Tartaro; la pallida febbre vi regna sovrana,
facendo strage dei poveri pastori e degli operai che vi guadagnano miseramente il pane.
Più ci si appressa al mare e più i boschi si allargano, e da Norba si vedono distintamente sino al capo Circeo.
Si seguono dalla foce del Tevere, da Ostia, da Ardea, da Nettuno sino a Cisterna e Terracina. In mezzo a quei
boschi vi sono dei tratti liberi, dove vengono raccolti gli armenti e dove abitano i coltivatori, come, per
esempio, Conca, Campo Morto, Campo Leone, Tor del Felce ed altre località. Là, nell’interno, dove i boschi
cessano, esistono delle vaste praterie, e più in là dei campi coltivati, e quindi la via Appia, restaurata da Pio
VI. Lungo il suo percorso attraverso la pianura marittima abbiamo scorto Cisterna, il villaggio più importante
della regione paludosa, anticamente chiamato Tres Tabernae, e For’Appio, anticamente Forum Appium.
In nessun secolo si è riusciti a prosciugare le paludi pontine. Giulio Cesare ne concepì l’idea, ma morì prima di
aver cominciato i lavori. Gli imperatori romani, prodighi nelle costruzioni di qualunque genere, non se ne
curarono mai; ed è curioso notare che fu un re barbaro, erede e conquistatore di Roma, Teodorico il Grande,
che fece ristabilire la via Appia e prosciugare una parte delle paludi pontine presso Terracina. Esistono tuttora
in questa città due iscrizioni, ove è ricordata l’opera memoranda del re goto. Fra i papi, fu Sisto V, questo
romano pratico e di carattere energico, che per primo riprese i lavori e due secoli dopo Pio VI continuò l’opera
sua facendo ricostruire la via Appia, scavare a fianco di questa un grande canale, ed altri secondari,
trasformando inoltre una parte delle paludi in terreni coltivabili: egli fu veramente un benefattore per una parte
della regione marittima.

… Sulla spiaggia di Nettuno ogni coltivazione cessa oltrepassata appena la città, cominciando quasi subito, in
tutto il loro squallore, le paludi pontine che si estendono fin verso Terracina. Non più abitati sulla riva, solo
sorgono qua e là, solitarie, alla distanza di circa due miglia l’una dall’altra, le antiche torri medioevali.
L’aspetto di questa solitudine, di questo deserto, di questa mancanza di coltivazione è grandemente imponente.
Pare quasi di non trovarsi più sulle classiche coste d’Italia, ma nei deserti dell’India o dell’America. Il frangersi
continuo delle onde, lo scintillare del sole estivo sulla bianca, piana, monotona spiaggia, il cupo bosco infinito
che accompagna per qualche centinaio di passi il mare, lo stridore dell’avvoltoio e del falco, il volo dell’aquila,
che altissima si libra sulle ali in larghe spire, il calpestio ed il muggito dei tori selvaggi, l’aria, le tinte, l’aspetto
delle cose e degli elementi dànno veramente qui l’impressione di un mondo deserto e selvaggio

… Giunti là dove il bosco scende fino al mare, cominciammo
ad avere dei timori. Non erano già i banditi che ci davano pensiero, ma le mandrie di tori e di bufali che
vagano colà completamente liberi, non sorvegliati da pastori. Tutta quanta la spiaggia fino a Terracina è
coperta di numerose mandre di tori, di buoi, di vacche, dalle corna lunghissime, di quella forma tutta classica
della campagna romana e che si vedono scolpite nel Partenone, attorno all’ara del sacrificio. Le loro corna
sono lunghe quasi tre piedi, molto divergenti, arditamente contorte, grosse, chiare, di bel colore.
Quasi in tutte le case del Mezzogiorno si vedono queste corna, tenute come amuleti contro il «malocchio» e
piccoli cornetti vengono portati dai principi alla catena dell’orologio e pendono dal collo dei ragazzi dei
pescatori.
I buoi sono selvaggi e grandemente pericolosi; il solo pastore li può governare, stando a cavallo, con la sua
lancia; più pericolosi ancora sono i bufali. Questi vivono a branchi e vagano solitari e liberi come i cinghiali;
frequentano volentieri gli stagni e le paludi e nuotano con grande agilità. Quando si attraversano le paludi
pontine o il bassopiano di Pesto, si vedono molti di questi mostri neri e selvaggi immersi negli stagni, dai
quali stendono fuori talvolta, sbuffando, solo le tozze teste. Il bufalo cammina sempre col capo chino a terra e
guarda sospettoso dal basso in alto. Non si serve delle sue corna, che sono come quelle del montone rivolte
indietro, ma rovescia a terra con la sua fronte di bronzo l’uomo che insegue, quando l’abbia raggiunto; quindi
gli pone il ginocchio sul petto e lo calpesta fino ad ucciderlo. I pastori domano questi pericolosi animali con la
lancia; passano loro attraverso il naso un anello ed allora li attaccano al carro e se ne servono per trasportare
grandi pesi, voluminosi blocchi di pietra, o tronchi d’albero giganteschi. Col latte della bufala vien fatta la
provatura, che è una specie di cacio molto difficile a digerirsi. La carne del bufalo è poco stimata, perché
dura; la comprano gli ebrei poveri del ghetto che non ne mangiano generalmente altra. I bufali abbondano
nelle paludi pontine, nella squallida riviera di Cisterna, di Conca e di Campomorto, covo della febbre, dove
perfino l’assassino non viene ripreso, quando vi si sia rifugiato. Gli uomini che custodiscono queste bestie
menano una vita misera, sono febbricitanti e di poco inferiori agli indiani della Prateria.
Il possibile incontro di questi animali ci dava assai pensiero; appena giunti nei boschi, li vedemmo numerosi
sulla spiaggia. Lasciati liberi, percorrono sempre la stessa strada e sempre nelle stesse ore; al mattino escono
dalla foresta e vengono al mare, per bevervi l’acqua salata, quindi o si sdraiano sulla sabbia o pascolano lungo
la costa; vi passano tutte le ore calde e quando sulla sera comincia la temperatura a rinfrescarsi, si muovono e
pascolando lentamente sulla riva s’inoltrano nei cespugli sino a che non arrivano nel fitto dei boschi, dove
trascorrono la notte, per scendere il mattino appresso nuovamente al mare.
Alla vista di tutti quegli animali, rimanemmo alquanto perplessi. Era impossibile passare di là, perchè
avrebbero potuto tagliarci la via, molti essendo proprio in riva al mare; proseguire lungo la spiaggia era
pericoloso, perchè sarebbe stato necessario passare in mezzo ad essi e qualche animale furioso avrebbe potuto
inseguirci nella direzione del capo Circeo: pensammo se non fosse stato più prudente tenerci vicino alla
macchia e questo partito ci sembrò il migliore.

Il luogo dove ci eravamo fermati era circoscritto dalla parte di terra dalle paludi pontine, su cui imponenti si
ergono i monti Volsci che scendono al mare; e dalla parte del mare dal capo Circeo che, simile ad un’isola, si
perde nell’azzurro del cielo. Sulla spiaggia sorge, ad un dato punto, una piccola cappella abbandonata e
deserta e pochi passi più in là emerge dalle acque il castello di Astura, un piccolo quadrato di mura merlate,
con in mezzo una torre. La cappelletta e il castello sono gli unici edifici che sia dato vedere in questa vasta
solitudine. Per quanto si volgesse da ogni parte lo sguardo, non si scoprivano che due ombre nere sui merli del
castello e due vecchi pescatori seduti contro il muro, taciturni e quasi annientati dal calore del sole fulgente
che stavano intrecciando una rete di giunchi per i pesci, mentre la loro barca si dondolava sulle onde.”


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