Con i pittori nelle paludi Pontine #1

Riportiamo di seguito l’estratto di pertinenza per il territorio di Pontinia di un’interessante studio condotto da Paolo Emilio Trastulli disponibile integralmente qui.

“Il litorale laziale da Passo Oscuro a Terracina era in buona parte caratterizzato dalla presenza di stagni e paludi. Alla destra della foce del Tevere lo sta gno di ponente proseguiva nelle terre paludose di Maccarese, per lo più sottacqua tutto l’anno; sulla sinistra del fiume, nelle vicinanze di Ostia antica , lo stagno di levante nutriva la ricca pineta di Castel Fusano dietro la quale corre fino ad Anzio il lido virgiliano dello sbarco di Enea; da Torre Astura a Terracina la spiaggia segnava il limite occidentale delle Paludi Pontine. Queste occupavano la regione compresa tra il mare e i monti Lepini, attraversata dal lunghissimo rettilineo della via Appia e solcata da rivi, fiumi e canali (Rio Martino; fiumi Sisto, Ufente, Amaseno; Canale delle Volte, per citarne alcuni); dalla tenuta di Conca (tra Cisterna e Torre Astura) fino al lido tra San Felic e e Terracina il paese era coperto dalle macchie di Cisterna e di Terracina. Territorio e paesaggio sembravano usciti dalla creazione ed erano tali da sollecitare ampiamente la fantasia degli artisti, letterati e pittori che fossero. [… omissis…]

A Maccarese,  agli stagni di Ostia, a Castel Fusano, sulle spiagge di Enea, su quelle di Astura fatali a Corradino di Svevia , ai ruderi di Ninfa riflessi sul la ghetto antistante, occorreva che ci si recasse di proposito. Non così per le Paludi Pontine, che incontravi sul cammino per la via di Napoli se non preferivi l’imbarco a Civitavecchia o ad Anzio. O le vedevi dall’alto (e l’illusione di un mondo fiorente, lussureggiante, vitale e sano era grande) o le attraversavi in fretta con la diligenza o col vetturino, cercando di non addormentarti (per sfuggire – così si credeva – alla febbre malarica). Ma Napoli era tappa fondamentale del Grand Tour, terra delle Sirene, del Me diterraneo solare, trampolino verso l’Oriente. E quindi inevitabile, anzi necessaria esperienza per poeti, letterati e pittori (e consolante rifugio per quanti lasciavano Roma fuggendo i malefìci dell’aria che comparivano ai primi caldi d’Aprile, finite da poco le cerimonie pasquali, frequentatissime da un pubblico europeo di aristocratici e buona borghesia).
Per questo le Paludi Pontine occupano non solo pagine di domestici diari, ma capitoli della letteratura internazionale. Che lascia sempre ampi spazi a gli interventi dell’immaginazione. Goethe nel febbraio del 1797 vedeva poeticamente in un cavallo bianco che caracollava libero sul suolo scuro lo spettacolo «veramente superbo» di un «raggio di sole» saettante; e a lui l’amico Tischbein, pittore tra Roma e Napoli, replicava con l’immagine di un vivace stallone egualmente candido che s’era sbarazzato d’ogni ostacolo e galoppava per ogni dove «bianco come la neve e di forme superbe». Aveva attraversato le Paludi Pontine (l’anno di pubblicazione del romanzo è il 1835) Antonio, prota gonista de “L’improvvisatore” di Hans Christian Andersen, e i canali sulla verde superficie della pianura gli erano sembrati splendere «come panni messi al sole per imbiancare»; e Corinna , l’eroina di Madame de Staël, un trentennio prima, aveva
effettuato l’inquietante traversata fino a Terracina , opulenta di fiori e di limoni, cercando di resistere, appunto, all’«invincibile inclinazione al sonno» che «in quel caldo torrido è una delle perfide insidie che il luogo racchiude».
Ne è solo dei letterati, questa trasfigurazione dei dati reali. Nella prima metà del secolo diciannovesimo anche per i pittori le Paludi Pontine possono essere solo uno spettacolo: ha la solennità di una scenografia,  coi bufali quieti nel loro para diso terrestre fatto di stagni sotto gli ombrelli enormi di rami secolari, il dipinto di Fritz Petzholdt, “Veduta delle Paludi Pontine con gruppi di bufali”, che è a Copenaghen (Collezione Hirschsprung) ed è degli anni de “L’improvvisatore”. Egli è pari se non addirittura più intriso di umori romantici e calligrafici il pittoresco paesaggio omerico della litografia “Nelle Paludi Pontine” di Karl
Lindemann Frommel compiuta un decennio più tardi. Come dire: le Paludi Pontine viste dall’esterno e ritratte; non propriamente vissute c ome un’esp erienza umana . A compiere l’epocale passaggio con “L’arrivo dei mietitori nelle Paludi Pontine” di Leopold Robert, ritratto di gruppo prima e fuori del dramma, non “La Mal’aria” di Ernest Hébert sintesi iconografica senza sufficiente contesto storico-ambientale, di un umanitarismo teorico, ma i rami, «spigolosi e crudi come cardi selvatici», delle incisioni di Carlo Coleman,
realizzate a cavallo della metà del secolo, e gli oli che li h anno preceduti o seguiti.
Novità: la scoperta dell’uomo dentro il paesaggio in un legame dialettico ed esistenziale con la natura fisica e gli altri esseri viventi ch’essa nutre.
Perché il messaggio venisse compreso e raccolto, un ventennio. Ed ecco scendere verso le Paludi il ligure Giuseppe Raggio, venuto a Roma per dipinger Madonne e santi e a Porta Angelica folgorato dalla visione di una mandria di bufali. Altare della sua preghiera il mondo pontino, espressa in tele tormentate, con bufali tozzi e deformi, bruti e primordiali, dono degli Unni ai rozzi, fauneschi mandriani dei secoli a venire, armati di lunga stuzza, cappello a cono tenuto dal soggòlo e l’orecchino al lobo. Malaria , l’opera che non volle mai vend ere (benchè vivesse di stenti, perché la sua pittura troppo cruda non incontrava», forse in quanto c ostringeva a pensare) e che tormentò col tornarvi sopra per decenni ogni tanto fino a rendere irriconoscibile il pensiero originario, è un po’ in tutti i suoi quadri, anche in quei suoi trasporti di un blocco di travertino che venivano dalle Paludi. Temperamento lirico, lettore di Orazio, ma anima tragica e di magnanima spiritualità , Giuseppe Raggio è stato, idealmente, pittore di un solo soggetto, infinite volte variato. Cicala inebriata dal sole laziale (ma guai ad allontanarlo per troppo tempo dal Cupolone: non avrebbe più saputo dipingere, diceva, senz’averlo sott’occhio) Onorato Carlandi è sceso anch’e gli tra i primi a Terracina, portandovi la sua viva cità ciarliera e discorsiva quale appare nella luce dei suoi acquerelli, spesso testimonianze di uno
stupore che si trasforma in racconto, come di fronte alle capanne tra gli acquitrini pontini in un giorno di dorata chiarìa in cui la tragedia del vivere è appena accennata da una croce all’apice di un tetto. Paesaggista puro, per così dire, Carlandi, che poco ama nella veduta la presenza umana; incline all’idillio e per questo amante delle più dolci linee della Campagna Romana attorno ai Colli o lungo la Flaminia Enrico Coleman, ma
nell’incontro con le Paludi Pontine non immemore della lezione paterna : così in uno spurgo del canale o in un meriggio nelle paludi, segnati entrambi all’orizzonte dal profilo rammemorante del Circe o, non sai se ammirare più l’impianto di ciascun dipinto e la sua capacità di dare preciso significato alla scena o la sommessa denuncia che la accurata registrazione del fatto sottintende.
Più alto sentimento tragico è certamente nei dipinti pontini di Giulio Aristid e Sartorio, nei quali scoperto è il confronto-scontro tra le due grandezze, quella fisica dell’universo rappresentato dalle Paludi Pontine, quasi un continente di complessa e misteriosa natura incontenibile, e quella creativa dell’ingegno possente dell’artista che si prova a penetrarlo e a sottometterlo, ora aderendo alla vastità dell’orizzonte sul quale l’occhio affaccia dall’alto vano di un arco, ora chiudendo l’immagine in una costrittiva inquadratura che coglie la tridimensionalità delle cose che in essa sono contenute, bufali, barchino e figure, o che del mito classico affida il ricordo all’acque sgorganti cui è concesso tra infuocati riverberi tutto il primo piano, quasi allusivo rimando alla liberazione dei servi che la divina Feronia concedeva : benemeriti servi sedeant, surgant liberi, come dic eva un’iscrizione antichissima che qui era ; ora tra duc endo nella plasticità del bronzo il terrore che nasce da un improvviso, tra gico incontro assunto a simbolo di una condizione ambientale o infine a prendo verso un riscatto che sembra imminente col rivestire di sacralità catartic a una scena consueta ab antiquo. Quadri quasi tutti del decennio tra il Venti e il Trenta del Novecento, questi in cui si esprime il michelangiolismo di Sartorio.
Gli anni Venti dell’altro secolo sono stati infatti nel mondo delle Paludi Pontine quelli della speranza e del riscatto. Al goriziano Del Neri, nell’immediata vigilia di quel ventennio, l’immagine maggiormente traumatica dell’incontro col mondo delle Paludi, dove la morte è in agguato nell’aria e tuttavia ha una sua liturgia che le conferisce dignità quale la vita non ha dato; nel marchigiano Dante Ricci, sul finire di quel ventennio, l’interpretazione spirituale del paesaggio induce ad affidare  ad una madre dolente eppure determinata , se della scena si vuol dare,  come pur sembra giusto, una lettura in chiave di simbolo, la speranza d’una definitiva spiaggia salvifica.

Speranza che, a voler procedere per simboli, può venire soprattutto da una nuova dignità data al lavoro, non
più solo sofferenza e malessere. In un dipinto del 1889 di Alessandro Morani, I lavori di maggio, rifacimento a memoria di un identico soggetto venduto, sembra alla critica che rispetto a quello sulla crudezza del lavoro sovrasti qui l’idillio tra due giovani che vanno ammassando il fieno in una tenuta di Mesa , ai margini della piana paludosa . Più ancora allusive ad una speranza ormai prossima in un dipinto di Amedeo Bocchi, Il granturco del 1922, le ingentilite figure di due giovani intente a sgranare pannocchie.
Tra 1919 e 1934 (ma la prima sua esperienza pontina risale al 1911) Bocchi è stato davvero il pittore delle paludi Pontine, anche se oggi è più universalmente noto come pittore di eleganti (e un po’ misteriose, forse) figure femminili. Nel percorso della produzione pittorica pontina di Bocchi si coglie significativamente un duplice momento: i suoi primi dipinti del paesa ggio intorno a Terracina hanno come protagonisti i bufali, sovrani della palud e, resi nelle forme care alla pittura di Giuseppe Raggio, tozzi e ineleganti nei corpi, quali sono, fortemente espressivi di condizioni ambientali che l’uso di una gamma cromatica di grigi sottolinea nella stesura del paesaggio; i suoi Bufali nelle Paludi Pontine sembrano, in una parola , usciti dal pennello dell’artista ligure. In un secondo momento Bocchi introduce nelle scene pontine la figura umana , anzi grup pi di esse, che nei gesti, nella collocazione, negli atteggiamenti riflettono la vita di quei luoghi; tagli di scene inconsuete e luce che si irradia ovunque; non più al c entro dell’attenzione la natura, ma l’uomo.
E nella luce, il presagio di un riscatto. Non è forse senza significato che un itinerario analogo sembra potersi individuare nel percorso pontino di un artista «leonardiano» come Duilio Camb ellotti. Se nelle sue sculture di figure umane (prevalentemente femminili, non a c aso, anche qui), da “Il pane” a “La pace”, e più anc ora in quelle di animali, da “Il buttero” a “Il toro” a “Il vomere”, la deformazione talvolta violenta delle fisionomie e delle linee anatomiche fa nuovamente pensare per certi versi alla pittura di Giuseppe Raggio ed alla sua aderenza alla realtà di un mondo visto con occhi di accentuata partecipazione (come certamente si deve dire anche per Cambellotti), nelle sue opere grafiche e pittoriche, a bonifica delle terre pontine compiuta e a
redenzione avviata , colpisce un dinamismo interno alla composizione che non è soltanto nelle line e rapide con cui si distende un paesaggio, un orizzonte, un gruppo di figure umane, un volo di uccelli o un passaggio di mandria, ma è come una accesa e nuova temperie spirituale che investe ogni angolo dell’opera . Come un sospiro di liberazione, una speranza e promessa di futuro, un fermento, una fiamma da non spegnere. Anzi da alimentare portando in quei luoghi, com’era nei progetti e nella volontà di Alessandro marcucci e Giacomo Balla, di Giovanni Cena e Sibilla Aleramo e, appunto, di Duilio Cambellotti, la scuola; da cui quel sapere che è ragione dell’essere persona e come tale vivere e operare.
Ma questa è un’altra storia .

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